some works 2011/2012

SUBURBS

photo elaborations on aludibond

THE TRUE AND FABULA
from the critical text by Sandro Sproccati
 

...."As if the sulfuric acid of a "aestheticization forced" attacks the scenario set up - the Suburbs which give the title to the novel images of Silva - to return it alienated and exhausted, difficult and subtly glamorous, in one fell swoop, because made fictitious as only photography can do. Those of Silva are in fact narratives of landscape and spend our astonishment, but, like all authentic narratives, they merely romanticize their object, complicated the viewer (reader) in a network of references aesthetic: visual filters and overlays, fades , deadlifts sudden, color toning, improper lights, deformation, fairies morgane, hallucinations ... The myth feeds for more of an overlap very bold on snapshots taken from life, a certain number of frames in itself steeped in mythos, since films derived from copyright emblematic of a hypothetical collective story of contemporary urban by Pasolini, Godard, Wenders from ...
To generate the extraordinary effect of the transaction - a mix of sweet seduction and visual unease left by horror fiction - contributes the grammar with which the icons are presented: framed geometric panels serial strictly cohesive in polyptychs basically, four to eight or twelve tables, each of which "photos" are homogenized for thematic and stylistic choice, or through a revision to the computer that  makes pictorial and persuasive, that almost makes it tangible and vibrant that Jean-Luc Nancy has called (very appropriate) the skin of the images: with reference to issues around the relationship between psyche and image, between vision and consciousness, not dissimilar to those that work forces us to face Silva"....

Bologna, March 2011 .............................................. ................................................ Sandro Sproccati

 

                                                                                                          IL VERO E LA FABULA
                                                                                              Riflessioni sulle “Periferie” di Silva Nironi

A me sembra cosa certa che il linguaggio della fotografia – in quanto mezzo d’arte – consenta esiti drasticamente affabulativi, e anzi che gli siano pertinenti congenite e del tutto efficaci vocazioni alla narrazione. Narrazione per immagini, dunque... la quale poi, nella dimensione sociale contemporanea, rappresenta una delle flessioni specifiche piú forti e socialmente attive dalla narrazione tout court. Si tratta in vero di una facoltà che già i primi artisti-fotografi, a partire dalla seconda parte del secolo XIX, seppero ampiamente riconoscere, valorizzandola, allorché iniziarono a dimostrare con le loro opere quanto condensato di “vita vissuta” perfino una singola immagine fotografica sia in grado di restituire. E allorché, sopra tutto, presero a produrre sistematiche serie di foto capaci di rappresentare in modo esaustivo – ossia affettivo oltre che oggettivo – sequenze di eventi realmente accaduti, ma anche, nei casi piú audaci, vere e proprie pseudo-historiche invenzioni, sovente correlate a luoghi esotici o non facilmente verificabili de visu. In sostanza, si potrebbe affermare che essi intuirono quel che di lí a poco il cinematografo avrebbe comprovato, ossia che il fondamento realistico della fotografia non inibisce l’attitudine al volo fantastico, ma anzi finisce per favorirla, almeno quando si sa metterne a frutto tutte le ricadute semiotiche. Ciò che distingue la foto dalla pittura è infatti – specialmente – la necessità che ha la prima (ma non la seconda) di imporre qualcosa di concreto e materiale, qualcosa di reale e non immaginario, su cui costruire il proprio testo, dato che il significante-immagine, nella fotografia, richiede qualcosa che proietti fisicamente la propria luce sulla superficie della lastra o della pellicola, oppure (con la svolta“digitale”) su un ugualmente meccanico sensore di luce, per lasciarvi la traccia di un’impronta visiva del tutto correlata alla propria stessa tangibile evenienza fisica. Sembrerebbe un limite ed è (può essere) un vantaggio. Dato che risulta garantito per tale via – anche sulla scortadi quanto Peirce riteneva essere l’iper-evidenza dei segni indexicali – esattamente quel “fattore di verità” a cui nessun altro linguaggio (ossia nessun altro sistema codificato di comunicazione) può attingere. Ora, è proprio giocando su una siffatta potenza di persuasione, e facendola interagire con i margini di arbitraria ideazione/manipolazione che sono comunque consentiti dalla linguisticità del processo, che la fotografia implementa una precipua veemenza di affabulazione finzionale. Essa, come il cinema, dispone in effetti di almeno due livelli basilari di artificio estetico: la messa in posa del referente (il “profilmico” nel cinema) e la libera scelta del punto di vista (i movimenti di macchina durante le riprese). Quando poi a questi dati si vada ad aggiungere la manipolazione creativa a posteriori dell’immagine (e qui, volendo mantenere il parallelo, si può far riferimento alla “postproduzione” cinematografica), ogni limite al finzionale narrativo – inteso come libertà di racconto da parte di un soggetto che si erge a dominus fabulae – risulterà abbattuto. Nelle opere recenti di Silva Nironi tutto ciò è ben evidente, cosí come è chiaro che quest’artista non utilizza la fotografia partendo dalla “fedeltà” con cui essa potrebbe riprodurre il dato visivo-oggettuale del mondo, ma piuttosto precisamente perché il presupposto mimetico della medesima costituisce il reagente psicologico di una forza rappresentazionale che si nutre di violazioni alla “fedeltà” stessa, ossia fornisce all’artista una sostanza corrosiva capace di intaccare la pretesa oggettività dell’atto di comprensione, in grado cioè di mettere fuori gioco la mimesis come mero rispecchiamento e (pertanto banale) conferma del già noto. Chi osserva le fotografie di Silva coglie innanzi tutto lo sbandamento a cui il dato, il risaputo – il nostro odierno paesaggio, la nostra cornice di riferimento esistenziale, la sua sterminata ovvietà – è ricondotto. Uno sguardo micidiale, fatto di travisamenti e di trasalimenti, che, nel riconfermalo, deturpa l’ambiente urbano che racconta, i suoi elementi architettonici, quasi interpretandoli per ciò che in verità (profonda) essi sono: luoghi fantastici e perfino onirici della mente (già sconvolta) piú che scenari pratici del nostro vivere diuturno.
Come se l’acido solforico di una “estetizzazione forzata” aggredisse lo scenario allestito – le Periferie che dànno il titolo al romanzo per immagini della Nironi – per restituircelo straniato ed estenuato, ostico e sottilmente fascinoso, in un sol colpo, proprio perché reso fittizio come solo la fotografia riesce a fare. Quelle di Silva sono infatti narrazioni del paesaggio e del nostro trascorrervi attonito; ma, come tutte le autentiche narrazioni, non fanno che mitizzare il loro oggetto, intricando lo spettatore (il lettore) in una rete di richiami estetici: filtri visivi e sovrimpressioni, dissolvenze, stacchi repentini, viraggi cromatici, luci improprie, deformazioni, fate morgane, allucinazioni...La mitizzazione si nutre per altro di una sovrapposizione assai ardita, sulle istantanee scattate dal vero, di un certo numero di fotogrammi già in sé pregni di mythos, dacché derivati da films d’autore emblematici di un ipotetico collettivo racconto della contemporaneità urbana, da Pasolini, da Godard, da Wenders... A generare lo straordinario effetto complessivo dell’operazione – un mix di dolce seduzione visiva e di sinistra inquietudine da horror fantascientifico – concorre poi la grammatica impaginativa con cui le icone sono presentate: incorniciate in riquadri geometrico-seriali rigorosamente coesi, in polittici in buona sostanza, a quattro a otto anove o a dodici tavole, in ciascuno dei quali le “foto” sono rese omogenee per scelta tematica e stilistica, ossia anche attraverso una rielaborazione al computer che le pittoricizza e le fa suadenti, ovvero rende tangibile e quasi vibrante quella che Jean-Luc Nancy ha chiamato (in modo assai opportuno) la pelle delle immagini: con riferimento a problematiche, intorno al rapporto tra psiche e immagine, tra visione e coscienza, non dissimili a quelle che il lavoro di Silva Nironi ci costringe ad affrontare.

Bologna, marzo 2011..............................................................................................Sandro Sproccati